Gino La Montagna
Tromba
È l’uomo “zen” del gruppo. Nessun contrattempo terrestre può indurgli ansia. Cascasse l’Himalaya con tutto il Nirvana, la cosa non lo tange. Si chiama veramente LA MONTAGNA, e già questo dà l’idea della sua grandezza. La mamma sua gli cantava come ninna nanna “Tu ca nun chjanne”: comm'è bello 'a Ginu stanotte, bello accussí, nun ll'aggio visto maje... Perché appunto col nome di Gino i genitori, per sdrammatizzare, lo battezzarono. Avrebbero potuto chiamarlo Pomponio, Onofrio, Eustachio, invece gli dettero nome semplicemente Gino. Un nome, un progetto di umiltà. Perché se Maometto non va a LA MONTAGNA son guai ma se non va a Gino, pazienza, chi vuoi che se ne accorga. Un progetto di umiltà che, divenuto adulto, ha sempre rispettato, nei modi gentili e dismessi, nella sobrietà dell’abbigliamento, nella statura.
Poi l’umile e bello Gino conobbe il suo strumento, la sua vocazione, la sua missione: la tromba! Ecco il suo destino: trombare con quanta più energia gli fosse data per l’universo mondo, facendo scattare il pistone ad ogni degna occasione. E si dette da fare, divenendo un virtuoso nel suo campo. Con la tromba ritrovò la sua grandezza.
Un metro e sessanta per poco più di 60 kg, questo che a prima vista poteva sembrare un piccolo uomo una volta in si bemolle si rivelò un grande, bruciando tutte le tappe di una sfolgorante carriera: seconda cornetta nella banda di Larciano, poi prima tromba nella filarmonica G.Verdi, infine elettrotrombettiere capo nel reparto guastatori meccanici. Fondò il Meccanismo a Pistoni, celebre quartetto metal(meccanico) degli anni 90 che ripara macchinari industriali di mezza Italia, e li ripara intonandoli rigorosamente in Sib.
Nel novembre 2002 approda infine alla presente formazione a vapore, in qualità di socio fondatore. La sua profonda conoscenza della musica liederistica tedesca fu determinate per orientare la scelta swing di quella che all’origine voleva essere una band di musica celtica. Anzi, è proprio lui, a trovare il nome all’ “idea”, che da allora si chiamerà appunto Banda a Vapore. Il resto è storia nota. E che nota! Quella che squilla imperiosa eppur dolcissima all’inizio del suo “a solo” più famoso (quando cioè la band a metà concerto gli richiede di attaccare nella solitudine più totale quel “Gelsomina” di felliniana memoria), laddove l’elettro-trobettiere si muta in apprendista stregone, capace perfino di sospendere il tempo e di inchiodarne l’inesorabile trascorrere generando un attimo fermo, sospeso, la nota d’inizio, il presente che non tramonta, l’universo appeso a quella minima come un malfattore al capestro, liberando così le emozioni dalla forza di gravità che le tratteneva nell’anima: allora tutta la città religiosamente si commuove come davanti alle lacrime della Madonna dell’Umiltà. Oppure quella (la nota, un'altra) che cammina roca come un Armstrong col raffreddore tra le improvvisazioni di “Perduto amor”, e cammina, cammina, cammina, alla fine arriva ad una radura nel bosco e vede la casina di marzapane e il resto lo sapete come va a finire. Celebri anche le sue immancabili stecche, così impertinenti e solide da poterci giocare, alla goriziana a fine concerto. Insomma, mai vie di mezzo: o bene bene, o male male, autentico valore aleatorio aggiunto che garantisce l’imprevedibilità delle pubbliche esecuzioni. D’altronde, sostiene la sua tromba zen, per suonare live se poi si deve suonare sempre uguale, tanto valeva mettere il disco.