Filippo Brilli
Saxofoni
Uomo swing dalla testa ai piedi, letteralmente: ha sempre ai piedi le sue famose jazz-shoes rigorosamente nere di bianco cuoio incollettate; e in testa non un cappello ma un cervello jazz. Di lui potremmo scrivere fiumi di parole, ma ci sommergerebbe con fiumi di note e non ne vale la pena, anzi la piena.
Dategli un saxofono e vi solleverà il mondo. Sempre che non ce l’affoghi dentro. Perché il saxofono, per lui, non ha segreti. Non li tiene, è un gran pettegolo (il suo saxofono). Antropologicamente parlando è l’ultimo dei Moicani, una specie in via d’estinzione, homus musicus erectus, panda gigante del WWF musicale, insomma, una rarità biologica, armonica e melodica. Egli non parla: suona.
Quelli che l’hanno sentito fare entrambe le cose, dicono che sicuramente è meglio così. Suona anche quando parla. Si esprime a “riff-opinions”, discorsi di base che si rincorrono sempre gli stessi senza capo né coda. Allora gli dici “me la fai sentire” e lui, prendendo il suo sax, riesce finalmente a spiegarsi. Si narra che grazie al sax sia riuscito a dare indicazioni turistiche a un giapponese di passaggio che non capiva una parola di italiano, utilizzando semplici scale jazz, per poi salutarlo con una blue note. Perché egli non parla: suona. Eccome se suona. Tanto. Incessantemente. Con una frenesia improvvisativa paragonabile soltanto a quella alimentare di un branco di squali. Moto perpetuo che non si ferma mai, raptus melodico tropo-neumatico, delirio anacrusico, quando attacca un assolo si scatena il panico: e ora chi lo ferma più? Quando al cantante durante il concerto viene sete, aspetta il solo di sax, poi va a prendersi un caffè, esce a farsi un cicchino, si riposa una mezzoretta, a volte schiaccia anche un pisolino, quindi rientra e il pezzo ancora non è finito perché il sax sta ancora improvvisando con un inarrestabile turbinio di note, scale pirotecniche, evoluzioni melodiche. Gli altri musici agonizzano stremati in un lago di sudore, e lui che continua a macinare passaggi e fraseggi fresco come una rosa hai detto vienimi a cercare.
Riesce a improvvisare su tutto: sul maggiore, sul minore, sulle settime, sugli spaghetti all’amatriciana, sul lavoro, sull’abbigliamento, in amore, in chiesa, al supermercato, un intera esistenza votata all’improvvisazione ma con alle spalle solidissime basi tecniche, teoriche e armoniche, che rendono il suo virtuosismo non solo fuori dal comune, ma anche dalla provincia e dalla regione. Infatti va a suonare anche fuori della Toscana, ed è l’unico della band che ancora esercita (la professione musicale) come apprezzato turnista sui palchi di mezza Italia. Anche se professionalmente si è consacrato al saxofono, è un polistrumentista geniale. Costruisce da sé strumenti con materiali riciclati, bottiglie, imbuti, forassiti, o anche con tuberi e generi alimentari (patate, carote, melanzane). Le sue ocarine di carote, poi, una volta bollite e condite a olio e sale, sono squisite.